Con l’ordinanza n. 32363 dell’8 novembre 2021, la Suprema Corte di Cassazione ha affermato che la materia degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali è regolata dal principio dell’equivalenza delle condizioni, secondo cui va riconosciuta efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento, salvo il temperamento previsto nello stesso art. 41 c.p., in forza del quale il nesso eziologico è interrotto dalla sopravvenienza di un fattore da solo sufficiente a produrre l’evento, tale da far degradare le cause antecedenti a semplici occasioni.
Nella vicenda posta al vaglio degli Ermellini, il ricorrente lamentava che il Tribunale avesse ritenuto non sussistente alcun nesso causale fra il risanguinamento dell’ematoma subdurale preesistente all’infortunio e l’infortunio stesso, nonostante il principio di equivalenza delle condizioni e l’insussistenza di cause di per se sole sufficienti a cagionare l’evento.
Nell’accogliere il ricorso, i giudici di legittimità specificavano che il Tribunale avesse evidentemente errato nel ritenere che “il risanguinamento dell’ematoma subdurale preesistente, ancorché provocato dal trauma conseguito all’infortunio e in dipendenza del quale il ricorrente aveva dovuto sottoporsi ad intervento chirurgico, non dovesse considerarsi “conseguenza” dell’infortunio stesso, atteso che le c.d. “concause di lesione”, vale a dire quegli stati morbosi preesistenti che di per sé non costituiscono inabilità ma che concorrono a rendere l’esito della lesione da infortuni più grave che in un organismo che ne sia immune, trovano la fonte normativa della loro rilevanza giuridica direttamente nel principio di causalità, enunciato dall’art. 2, T.U. n. 1124/1965, per il quale l’efficienza causale va valutata, diversamente che per l’inabilità, non in astratto, in relazione ad un ipotetico lavoratore medio, ma in concreto, rispetto alle condizioni fisiche individuali del lavoratore infortunato ed alle sue personali capacità di resistenza alla specifica causa violenta, di talché la quota di efficienza causale in ipotesi addebitabile alla concausa di lesione preesistente non ha alcun valore giuridico ‘sottrattivo’ e l’inabilità, nella sua valutazione complessiva ex art. 78, T.U. cit., dev’essere attribuita integralmente alla lesione da infortunio o da malattia professionale, che si carica di una efficienza causale totale ed esclusiva, sia che la concausa di lesione preesistente sia lavorativa, sia che sia extralavorativa”.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
La Suprema Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 32473 dell’8 novembre 2021, ha stabilito che non può essere coperto dall’assicurazione INAIL l’incidente verificatosi durante un'attività non intrinsecamente lavorativa e non coincidente, per modalità di tempo o di luogo, con le prestazioni dovute.
Nella vicenda in esame, la Corte d’Appello accoglieva la domanda di una lavoratrice, la quale era stata vittima di un incidente lungo il tragitto che stava percorrendo a piedi in rientro da una breve pausa caffè.
La donna aveva, infatti, chiesto l'indennità di malattia per inabilità assoluta temporanea e l'indennizzo corrispondente ad un danno permanente del 10%, relativamente al suddetto infortunio.
Secondo il giudice di merito, l'evento era connesso ed accessorio all'attività di lavoro e non ricorreva un’ipotesi di rischio elettivo.
A questo punto, l’INAIL si rivolgeva alla Cassazione, lamentando la violazione dell'art. 2 t.u. n. 1124 del 1965 e la falsa applicazione dell'art. 12 d.lgs. n. 38 del 2000.
Il Tribunale Supremo accoglieva il ricorso, specificando che l’assicurazione INAIL copre soltanto gli infortuni ingenerati dalla causa violenta in occasione di lavoro.
Per gli Ermellini, l’assicurazione infortuni, secondo l'intento del legislatore del 1965, non è finalizzata a coprire i rischi generici, cui il lavoratore stesso soggiace al pari di tutti gli altri cittadini, a prescindere cioè dall'esplicazione dell'attività lavorativa (a meno che non si tratti di rischi "aggravati" da peculiari circostanze, in presenza delle quali possa dirsi che è ancora una volta il lavoro ad offrire occasione per l'incontro della causa violenta con l'organismo dell'infortunato), nè ad apprestare una speciale tutela in favore del lavoratore per il solo fatto che allo stesso sia occorso, in attualità di lavoro, un qualunque evento che in qualche modo abbia leso la sua integrità fisica o mentale.
L'indennizzabilità, per la Suprema Corte, “non consegue alla mera circostanza che l'infortunio si sia verificato nel tempo e nel luogo della prestazione lavorativa, occorrendo invece, come requisito essenziale, la sussistenza dell'anzidetto nesso tra lavoro e rischio, nel senso che il lavoro determina non tanto il verificarsi dell'evento quanto l'esposizione a rischio dell'assicurato”.
Come requisito essenziale, è necessaria la sussistenza di un “nesso eziologico fra attività lavorativa e rischio assicurato, nel senso che il rischio indennizzabile a norma della legge citata, anche se non è quello insito nelle mansioni svolte dall'assicurato (c.d. rischio specifico), non può comunque essere totalmente estraneo all'attività lavorativa, come nel caso di rischio elettivo, scaturito cioè da una scelta arbitraria del lavoratore il quale, mosso da impulsi personali, crei ed affronti volutamente una situazione diversa da quella inerente l'attività lavorativa, ponendo così in essere una causa interruttiva di ogni nesso fra lavoro, rischio ed evento”.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Con l’ordinanza n. 32159/2021, la Suprema Corte di Cassazione ha stabilito che il termine di complessivi 10 anni per la revisione della rendita per infortunio sul lavoro, previsto dal D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, art. 83 (Testo unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali), non è di prescrizione, né di decadenza, bensì delimita esclusivamente l’ambito temporale di rilevanza dell’aggravamento o del miglioramento delle condizioni dell’assicurato, che fa sorgere il diritto alla revisione; pertanto, è ammissibile la proposizione della domanda di revisione oltre il decennio, purché la parte interessata dia prova del fatto che la variazione sia avvenuta entro il decennio, e a condizione che, se la revisione è richiesta dall’INAIL, l’Istituto, entro un anno dalla data di scadenza del decennio dalla costituzione della rendita, comunichi all’interessato l’inizio del relativo procedimento.
La data di costituzione della rendita non è l’atto formale che costituisce il diritto, atto che ha natura meramente dichiarativa e risulta fissato casualmente in relazione alle vicende della sua formazione per via amministrativa o giudiziale, né la data dell’evento materiale che determina la nascita del diritto, bensì coincide con la data in cui il diritto stesso decorre; pertanto, deve ritenersi che, nel caso in cui entro il termine decennale suddetto si proceda alla revisione della rendita per infortunio sul lavoro e questa accerti la sussistenza di un miglioramento dell’attitudine al lavoro che conduca la relativa riduzione in uno spazio di giuridica irrilevanza, ed in tale spazio si conservi alla scadenza del decennio, si determina l’irreversibile estinzione del diritto.
Di conseguenza, ove dopo il decennio l’attitudine al lavoro si riduca raggiungendo nuovamente una misura astrattamente rilevante, emerge una nuova situazione materiale, estranea al preesistente diritto.
Nella vicenda in esame, poiché:
• l’infortunio sul lavoro si era verificato il 16.12.1995;
• era stata costituita una rendita INAIL commisurata ad una invalidità del 34% con decorrenza dal 15 giugno 1996;
• a seguito di visita medica di revisione in data 5 dicembre 2002, era stata riconosciuta una rendita pari al 40% dal 7 gennaio 2003;
• a seguito di una ulteriore visita medica collegiale del 19 maggio 2003, la percentuale di inabilità era stata riconosciuta pari al 60% dal primo febbraio 2003;
• la sentenza impugnata aveva accertato, sulla base di una consulenza tecnica d’ufficio, la sussistenza di un aggravamento delle conseguenze relative all’infortunio che avevano determinato una percentuale di invalidità pari al 70% a decorrere dal marzo 2007, e quindi dopo la scadenza del 16 giugno 2006, scadenza del decennio previsto dal D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 83,
il diritto alla suddetta rendita si era già estinto, come correttamente sostenuto dall’Istituto ricorrente.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Il D.L. n. 146/2021 ha previsto la proroga dei congedi parentali Covid al 31 dicembre 2021.
Si tratta di un provvedimento che consente al lavoratore dipendente, genitore di figlio convivente minore di 14 anni, alternativamente all'altro genitore, di astenersi dal lavoro per un periodo che corrisponde in tutto o in parte alla durata:
• della sospensione dell'attività didattica in presenza del figlio;
• dell'infezione da Sars-Cov-2 del figlio;
• della quarantena del figlio.
I genitori di figli con disabilità hanno diritto ai congedi parentali straordinari indipendentemente dall’età anche qualora il figlio frequenti centri diurni a carattere assistenziale dei quali sia stata disposta la chiusura.
È possibile anche convertire i periodi di congedo parentale ordinario fruiti dall'inizio dell'anno scolastico e sino all'entrata in vigore del decreto Fiscale nei congedi straordinari previsti per l’emergenza Covid-19.
I congedi parentali Covid danno diritto anche ad un indennizzo, nel senso che l’INPS eroga al lavoratore, al posto della retribuzione, un’indennità pari al 50% della retribuzione stessa.
Quanto ai liberi professionisti, i quali siano iscritti in via esclusiva alla gestione separata, essi potranno godere dei congedi speciali per ciascuna giornata indennizzabile, secondo la base di calcolo utile per la determinazione dell’indennità di maternità.
Ciò vale anche per i lavoratori autonomi iscritti all’INPS, i quali potranno allo stesso modo fruire della prestazione, con il calcolo del 50% effettuato sulla retribuzione convenzionale giornaliera stabilita in relazione alla tipologia di lavoro svolto.
Per quanto concerne, infine, i lavoratori dipendenti con figli in età compresa tra i 14 e 16 anni, in tal caso uno dei due genitori potrà astenersi dal lavoro in tutto o in parte alla durata:
• della sospensione dell’attività didattica o educativa in presenza del figlio;
• dell’infezione da SARS-CoV-2 del figlio;
• della quarantena del figlio disposta dal Dipartimento di prevenzione dell'azienda sanitaria locale (ASL) territorialmente competente a seguito di contatto, ovunque avvenuto.
Il lavoratore non avrà diritto all’indennizzo, ma soltanto alla conservazione del posto di lavoro.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 26454/2021, ha stabilito che, nell’ambito delle procedure collettive, l’impresa è tenuta a rispettare il criterio delle cosiddette quote rosa nello scegliere i dipendenti da licenziare, cioè la stessa deve garantire la permanenza, all’esito del recesso, della stessa quota proporzionale di manodopera femminile sul totale degli occupati.
La vicenda in esame traeva origine dall’impugnazione da parte di un lavoratore del licenziamento che gli era stato comminato nell’ambito di una procedura collettiva.
La Corte territoriale, che respingeva la predetta domanda, stabiliva che il criterio di scelta dei lavoratori da licenziare nel rispetto delle quote rosa assurge a limite imposto dalla legge, che, in quanto tale, fuoriesce dal novero delle informazioni che la comunicazione iniziale doveva contenere a pena di illegittimità della procedura.
A questo punto, il lavoratore si rivolgeva alla Cassazione, deducendo, in particolare, la violazione dell'art. 5, comma 2, della L. 223 del 1991 (art. 360, n. 3). Per il ricorrente, la valutazione circa il rispetto del divieto di licenziare una percentuale di manodopera femminile superiore a quella impiegata per quelle mansioni deve essere effettuata in relazione all'intero complesso aziendale e il riferimento deve essere alle mansioni di inquadramento.
Il Tribunale Supremo rigettava il ricorso, confermando lo stesso principio espresso dal giudice di merito.
Secondo gli Ermellini, nell’ambito di una procedura collettiva, l'impresa non può licenziare una percentuale di manodopera femminile superiore alla percentuale di manodopera femminile occupata.
Di conseguenza, “il confronto da operare in relazione al personale da espungere dal ciclo produttivo, va innanzitutto circoscritto all'ambito delle mansioni oggetto di riduzione, cioè all'ambito aziendale interessato dalla procedura, così da assicurare la permanenza, in proporzione, della quota di occupazione femminile sul totale degli occupati”.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'